Testimonianza di Mario Lega:
Mario Lega, quel 20 maggio del 1973 era alla sua terza gara Mondiale. Partito bene dalla seconda fila era arrivato al Curvone a ridosso di Braun, Pasolini, Saarinen e Kanaya. Per Lega la causa dell’incidente non è da addebitarsi al grippaggio della moto di “Paso” o all’olio in pista, bensì alla perdita di aderenza della ruota anteriore. Mario Lega da Lugo, di anni 53 è stato Campione del mondo della classe 250 nel ’77. Fino a oggi il campione romagnolo non è apparso più di tanto nella storiografia ufficiale legata a quella giornata nera. “Rimasi in disparte perché in fondo mi trovavo nel ruolo dell’ultimo arrivato. Ma quel giorno ero lì, a pochi metri da Pasolini e Saarinen, sul filo dei 200 km/ h, e vidi tutto”.
Ecco, 30 anni dopo, il racconto della sua allucinante esperienza.
“Doveva essere una bellissima giornata, quella. Ero in sella alla Yamaha 250 della Scuderia Diemme e tutto stava girando magnificamente. Per me era il terzo GP della carriera: avevo debuttato nel Circus l’anno prima a Imola e poi nel ’73 avevo iniziato la stagione al Nürburging. Ma torniamo a Monza. Il venerdì, giorno della prima sessione, pioveva che Dio la mandava: in pista eravamo talmente tanti che fu necessario dividerci in 2 batterie e io, il novellino, fui il più veloce di tutti. Ero alle stelle. Il sabato ci qualificammo sull’asciutto [...] ero in seconda fila col cuore in tumulto. È la mia grande occasione, non posso sbagliare.” - "Ci avviamo a spinta e senza giro di ricognizione. Dieter Braun, il bestione tedesco alto quasi 2 metri, con le sue lunghe leve spinge la moto come una locomotiva e schizza in testa, poi ci sono Pasolini, partito bene, Saarinen e Kanaya. Subito dopo in scia ci sono io e dietro di me Gallina. Davanti a noi il Curvone, il mostro.” - "La Curva Grande di Monza non era una brutta bestia. Piuttosto per tutti noi rappresentava un problema psicologico. La fitta vegetazione ai bordi la faceva sembrare visivamente ben più stretta di quello che era e questo, sulle prime, metteva a disagio. Sapevi che dovevi tenere spalancato il gas, ma nello stesso tempo l’istinto di conservazione ti suggeriva di non farlo. Prendendo confidenza stabilivi i tuoi punti di riferimento e ti rendevi conto che si trattava filosoficamente e semplicemente di un pezzo di rettilineo che andava affrontato piegandosi, tutto lì. Una cosa facile e nello stesso tempo difficile: sembrava un budello stretto, poi un attimo dopo ci eri in mezzo a 200 km/h e ti pareva una strada larga come il deserto.”
Siamo nel gruppone e stai per riaffrontarla di nuovo, Mario. “Mi rendo conto che sto andando a mille e che ho la velocità per provare a bruciare Kanaya. Poi in un attimo penso: ma no, che cavolo vado a fare, lui è un pilota ufficiale, va a finire che poi mi ripassa subito, andiamo in bagarre e rovino tutto. No, non l’attacco, resto in scia e aspetto. Questo mi dico e faccio bene. Pelo leggermente il gas e mi riaccodo [...] è questo pensiero a salvarmi la vita. Perché un secondo dopo, in mezzo al Curvone, Renzo scivola via. In quei momenti si perde la dimensione delle cose, vivi tutto al rallentatore, l’attenzione seleziona i rumori, ti regala solo quelli importanti. Dopo aver sfiorato 2 metri scarsi di prato, la moto e Renzo s’infilano di punta sotto il guard-rail, mentre noi stiamo sopraggiungendo. Attenzione, però, è l’avantreno a scivolare, non il posteriore. È questo che innesca la caduta. Quindi chi dice che tutto accadde per un grippaggio ha torto. Se grippaggio ci fu, non fu quella la vera causa, perché la moto di Pasolini non fece alcuna virgola con la ruota posteriore ma partì davanti.” - “Dopo il tonfo, lo sbuffo delle balle di paglia: la moto rimbalza ma non rasoterra, no, vola a mezza altezza verso di noi. Io e Kanaya istintivamente facciamo per alzarci dalla carena proprio quando la moto di Renzo colpisce violentissimamente Jarno in faccia. Tengo la corda della curva e ci resto: in quei momenti la bravura è quella di non pinzare il freno. Non so come, ci riesco. Io e Kanaya ci apriamo a ventaglio, io a destra, lui a sinistra, con Gallina dietro di me, mentre alla spalla sinistra vengo colpito da alcuni detriti. Capisco al volo che Jarno è messo malissimo, ma in quel momento prevale l’istinto di inseguire Braun che sta davanti e sta tirando come un folle. Kanaya non c’è più: è caduto mentre si allargava dalla parte sbagliata. Primo giro: Braun è in testa davanti a me e Gallina. Sfrecciamo sul rettilineo principale e nessuno ci segnala niente anche se, vedendo il vuoto dietro di noi, realizziamo ben presto che deve essere accaduto qualcosa di gravissimo. Al Curvone c’è l’apocalisse. Corpi esanimi, relitti e detriti ovunque. Un silenzio agghiacciante, il gelo della tragedia. Ma, sempre per quel maledetto istinto, noi tre andiamo avanti facendo un prudente slalom. Quasi un altro giro di conserva, poi Dieter si gira, io mi alzo dalla carena, Gallina mi affianca e diciamo basta una volta per tutte. Di slancio arriviamo al Curvone per la terza volta e troviamo le ambulanze, il fuoco e stavolta la certezza di aver perso degli amici per sempre. Grant e Mortimer piangono, non meno di 15 piloti sono caduti e si sono fatti male. Vedo il casco bianco di Villa tra la paglia: sulle prime ci dicono che pure Walter è morto.”
Tra i reduci di quella corsa maledetta, si parla ancora oggi del «marchio di Monza ’73». Potresti spiegarci di cosa si tratta? “Vedi, Monza ’73 è strana, crudele, obliqua, doppia. I piloti che l’hanno vissuta si dividono in due gruppi: chi ha visto la dinamica dell’incidente, come me, è poi sfilato e non ha percepito in diretta nulla delle conseguenze; invece chi ha vissuto subito dopo sulla sua pelle le conseguenze, l’ha fatto senza neppure rendersene conto dell’innesco. Così i primi hanno visto tutto ma non hanno fatto in tempo ad aver paura, gli altri hanno vissuto il terrore senza sapere perché. Tutti noi reduci di Monza abbiamo subìto troppo, ma allo stesso tempo sentiamo che ci manca qualcosa dell’interezza di ciò che accadde, chi prima e chi dopo. È questo, forse, il marchio di Monza.”
C’è qualche altra cosa che ti è restata nella memoria dell’immediato dopo gara. “Sì, una cosa molto brutta, anzi, il peggior ricordo che ho delle corse. Il volto della compagna di Jarno che chiedeva notizie. Aveva un’espressione indefinibile, una sorta di disegno fisiognomico complesso, composto da due sensazioni: la certezza che fosse accaduto qualcosa di irreparabile frammista alla speranza, di essersi sbagliata. Purtroppo non si stava sbagliando.”
Fonte: Dream Bradipo Racing Team Forum (
http://www.dbrtforum...ts.asp?TID=2275)